Generazioni di imposizioni: errori sui figli

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Avevo quindici anni quando presi in mano per la prima volta il libro de “I promessi sposi” e la mia attenzione venne calamitata dalla storia infelice di Gertrude, la monaca di Monza. Mi sembrava crudele che a causa della legge del maggiorasco, poi caduta in disuso, solo al primogenito fosse consentito avere il patrimonio familiare, mentre al restante dei figli fosse destinata la carriera militare o ecclesiastica. Mi stupivo dell’abilità del Manzoni nel descrivere così accuratamente le manipolazioni psicologiche a cui era stata sottoposta Gertrude fin dalla nascita, già col nome stesso, che doveva servire a richiamare in lei una certa attitudine spirituale. Quando era piccola le venivano regalate bambole vestite da suore, per farle complimenti la chiamavano “madre badessa”, costringendola con sottigliezze psicologiche (soprattutto da parte del padre) ad entrare in convento all’età di sei anni, per poi anni dopo obbligarla a scrivere la supplica per accedere al noviziato, nonostante avesse fatto presente al padre la volontà di maritarsi. A causa della sua condizione di manipolazione psicologica piuttosto accentuata e di debole volontà d’animo Gertrude pronunciò i fatidici voti, e fu monaca per sempre, sebbene abbia sempre avuto e continuerà ad avere comportamenti poco consoni alla vita da monaca. Così ebbe una relazione con Egidio e, tra mille rimorsi, fu complice dell’omicidio di una conversa che scoprì il tutto. Ecco dove può portare una vita in cui si reprimono i propri desideri pur di seguire le imposizioni sociali e familiari, per non avere la forza e il coraggio sufficienti di opporsi. Gertrude poteva opporsi, ma non lo ha fatto. E ha dovuto convivere coi suoi rimpianti, con l’astio provato verso tutte le persone che secondo lei avevano avuto una scelta mentre lei invece no, col rimorso di aver avuto parte a un omicidio per nascondere la sua non conformità alla vita monastica.

Da quel che so mio padre è sempre stato un uomo ligio al dovere e profondamente religioso. Fa dei suoi sacrifici per gli altri, i suoi punti di forza. Ciò che lo contraddistingue, ciò che gli permetterà di andare in Paradiso un giorno, nonostante lui sappia bene che secondo la dottrina cattolica dovrà purificarsi e soffrire un po’ in Purgatorio, non si sa per quanti anni. Quando conobbe mia madre aveva 23 anni e l’ha spostata quando ne aveva 28. Degli anni di fidanzamento lui ricorda di avere a un certo punto capito le stranezze caratteriali della futura moglie, incline alle arrabbiature e agli urli frequenti, tanto da battezzarla nelle storie quando ci raccontava quando io e mia sorella eravamo piccole “la regina urlatrice”, che faceva scappare coi suoi urli i principi pretendenti la mano delle figlie del re. Negli anni di fidanzamento papà iniziò il progetto per sistemare la casa che sarebbe dovuto essere il loro nido d’amore una volta sposati, ma che poi si è rivelato essere il nido degli urli e dei rimproveri costanti. La nostra casa è stata ricavata in parte dalle stanze che costituivano una piccola zona della casa dei miei nonni, che stanno appunto sullo stesso nostro piano. Il restante degli appartamenti del palazzo appartiene agli altri miei parenti, fratelli e sorelle di papà, dato che siamo in un palazzo familiare. Quando a papà vennero dubbi sulla scelta di sposare mamma, ormai il progetto della casa era iniziato e tutti i parenti di entrambe le parti sapevano che sarebbero dovuti convolare a nozze. A discapito delle certezze degli altri mia madre temeva di non trovarlo all’altare, ma nonostante tutto o forse proprio a causa di tutti questi eventi esterni (aggiungendo la pressione di essere considerato dagli altri vecchio a 28 anni, dato che le sue sorelle si erano maritate a 18 anni) si sposarono e mio padre giurò davanti a Dio, come il rito ecclesiastico impone, di amare e onorare per sempre la propria sposa, sebbene avesse dubbi già da tempo se quella fosse per lui la scelta giusta.

Non lo fu, ed è stato lui stesso ad ammetterlo davanti a noi figlie, tanto da augurarsi che mamma trovi un amante, un’altra persona con cui magari potrebbe stare meglio. Perché lui con lei non sta bene, ma non la lascia in parte per conservare l’apparenza di una famiglia unita, in parte perché le attuali leggi lo ridurrebbero in povertà per dare il mantenimento a moglie e figlie a causa del divorzio.

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Così la sua vita si riduce nello svegliarsi presto la mattina, andare al lavoro, tornare a pomeriggio inoltrato/sera, sentire le varie lamentele e grida di mamma una volta tornato a casa        e mettersi infine sul divano a vedere partite di calcio o programmi politici fin quando non è stanco. Le giornate libere le passa a fare la spesa insieme a mamma, qualche volta al centro commerciale, altre volte davanti la tv o al pc per tenersi aggiornato col lavoro. La domenica va in chiesa, generalmente insieme a mamma, ma non sempre è così. Si affida molto a Dio, gli chiede di dargli la forza, e almeno ci crede, ci crede che questo suo affidarsi lo farà stare bene. E in parte è così, ma non si può definire una persona felice. Per seguire pressioni sociali, familiari si è costruito una famiglia con una donna il cui carattere è completamente opposto al suo, una donna che non ama, seppure abbia con ipocrisia promesso davanti a Dio che l’avrebbe amata per sempre. Ha promesso di rispettarla sempre, eppure qualche volta ha alzato le mani su di lei, forse nell’emulazione della violenza che suo padre riservava a sua madre.

Mio nonno era il classico pater familias e decideva tutto lui per gli altri. Era violento quando voleva, si arrabbiava, ma faceva sacrifici per la famiglia. Andava a pescare e lavorava molte ore al giorno, quindi lo sfogo sulla famiglia per lui andava bene. Insomma, se ti sacrifichi per qualcuno è giusto e perfettamente normale trattarlo male, imporre le tue scelte, farlo crescere con una mentalità chiusa. E mio padre conserva ancora un po’ questa mentalità maschilista, che la famiglia vera sia quella composta da un padre, una madre e dei figli e che la vera religione sia quella cattolica. Qualunque accenno di apertura mentale svanisce in un lampo se nomini famiglie gay o se contesti la religione, facendogli domande a cui lui non sa darti risposta, “ma lo dice la dottrina quindi sarà giusto”. Non si pone domande tanto “quando si muore poi si vede realmente dove si va” e lui, senza nessuna certezza, con la mente chiusa per non rischiare di far entrare nessun dubbio, crede fermamente di andare in Paradiso, perché Gesù è esistito e ha detto che il Paradiso esiste, e questa per lui è una verità da non mettere mai in discussione. Dalla mia descrizione potrebbe sembrare qualcosa che non è, ma in realtà è una persona buona, è semplicemente cresciuto in un determinato contesto e qualsiasi sua azione crede di farla per il bene degli altri, anche quando impone le cose alle proprie figlie. Se sei convinto che le tue decisioni e credenze siano quelle giuste non le vedi come imposizioni quando stai effettivamente imponendo delle cose, li vedi come consigli giusti di un genitore “che sa”, quindi le tue scelte vanno seguite alla lettera. Credo che io quindi rappresenti una bella sfida per lui.

Fin da quando era piccola era una verità ormai risaputa dai genitori di mia madre che lei fosse stupida, e queste credenze, queste idee pensiero hanno attecchito e germogliato dentro di lei, radicandosi in profondità, tanto da ordinare realmente al cervello di abbassare le proprie funzionalità, che tanto non servivano,” perché lei era stupida e alle stupide non piace studiare, e non serve nemmeno, perché bisogna andare a lavorare alla svelta per portare soldi in famiglia, per essere in qualche modo utile, per non sentirsi rimproverare di non avere voglia di studiare e di perdere tempo inutilmente.” E così i genitori di mia madre, che non navigavano certo nell’oro, hanno ricavato soldi in più grazie al lavoro della figlia, che non è riuscita ad impegnarsi con lo studio e quindi non le è stato consentito (mentre ala figlio maschio si) – e lei nemmeno ha voluto – proseguire dopo le medie. Ma era brava nel lavoro di commessa, ha dovuto lottare per avere fiducia in se stessa, soprattutto quando entravano in negozio famiglie facoltose, con ragazzini come lei ma, diversamente da lei, acculturati . E doveva accoglierli, e quindi dal carattere timido che aveva ha estratto con tutte le forze una parlantina e una sicurezza nei confronti degli altri che è andata aumentando nel corso degli anni. Ma solo a livello superficiale, di apparenza. Una maschera di sicurezza apparente per mascherare le sue insicurezze più profonde. La madre di mia madre è sempre stata dotata di un volume di voce piuttosto alto e nell’emulazione di questa sua spiccata peculiarità, i figli hanno assunto lo stesso atteggiamento. Non mi piaceva proprio andare a casa di nonna da piccola, urlava lei e i figli, ma per loro si trattava di un normale eloquio.

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Per me si trattava di mal di testa assicurato. E quando alzavano di più la voce davvero per urlare apriti cielo! Perché si urlava spesso in quella casa, per questioni riguardanti la sorella di mamma e le sue figlie, che vivevano in condizioni abbastanza disagiate. Vivendo in tale famiglia non stupisce quindi che mia madre, per esprimersi con chi aveva una certa intimità, utilizzasse un linguaggio simile a quello che aveva acquisito nella sua casa natale, e quindi non mancavano urla e arrabbiature da parte sua. Ogni cosa che per lei non andava, e sono davvero molte le cose che a lei non stanno bene, lo amplificava con urla e rimproveri verso la controparte sventurata che secondo lei aveva sbagliato. E non addolciva la sua condotta nemmeno nei confronti del novello promesso sposo. Nella sua ignoranza e insicurezza mia madre ha da sempre avuto una forma di ipocondria che è andata peggiorando con gli anni, e credo che sia questo, la paura delle malattie contagiose, insieme al viscerale terrore dell’Inferno, ad averla condotta casta e pura dinnanzi all’altare del matrimonio che ha trovato, come ormai saprete, non vuoto.

I cambiamenti possono essere eccitanti, o spaventosi. Per mia madre semplicemente è meglio non cambiare. La sua routine è stata stravolta dallo spostamento dalla sua conosciuta, sicura e opprimente città, dall’allontanamento dai parenti (secondo me questo le avrebbe fatto bene se avesse visto la positività in ciò), dal trovare parenti acquisiti che lei non gradiva già ben prima del matrimonio e doverli vedere ogni giorno perché nello stesso palazzo, non ha giovato di certo al suo buonumore. Ha lasciato la sua professione per sposare a tempo pieno il lavoro di casalinga e madre, anche se io avrei preferito saperla a sgobbare in qualche negozio piuttosto che averla trovata preservata in casa, come una mummia, ma non ben mummificata, con una coscienza in decomposizione. A lei stava più che bene smettere di lavorare per occuparsi della casa e dei figli, almeno all’inizio. Ma so per esperienza diretta e comprovata dagli anni che a mia madre non starebbe comunque bene niente. Così ha desiderato ardentemente un figlio, per occupare le sue giornate in casa, per sentirsi accettata socialmente nel suo ruolo di madre e così sono nata io. E poi ha gettato addosso a noi figli la sua decisione di essere casalinga a vita, “perché i figli con una madre sempre presente sono più sani (inteso a livello psicologico),e si vede”. Conclusione: era meglio che fosse stata zitta e che fosse tornata a lavorare.

Ciò che di lei ho sempre detestato, oltre alla superficialità, è l’ipocrisia. La sua vita è fatta di apparenze e poca sostanza e quest’affermazione può essere condensata nell’immagine di lei vestita in modo fashion, con il suo stile impeccabile, che canta nel coro della chiesa, o che semplicemente è in piedi in chiesa a ripetere a pappardella e con voce soavemente alta e udibile da tutti, tutte le frasi di rito della liturgia ecclesiastica, avvicinandosi poi all’altare per prendersi la comunione con fare solenne e superficialmente pentito e contrito, ma soprattutto visibile da tutti gli altri. Perché i gesti della sua devozione sono palpabili, e tutti i presenti in Chiesa potrebbero testimoniare di fronte a Dio che è una brava cattolica. Di apparenza. Rispettando tutte le regole che i suoi genitori le hanno imposto e che lei ha memorizzato nel suo manuale mentale del bravo cristiano cattolico. Ma lei tornerà a casa, col corpo di Cristo divenuto un unico corpo col suo e inizierà a urlare, a lamentarsi e a insultare le persone vicino a lei, generalmente o la madre del marito, o noi figlie per non aver fatto qualcosa che generalmente non richiederebbe insulti pesanti come rimproveri. Ma non rientra nel suo modus operandi e vivendi l’essere gentile quando potrebbe benissimo sfogarsi urlando, nonostante affermi di essere cattolica. E lei è assolutamente convinta di questo, ma risulta essere solo una bigotta. Una religiosa che non capisce nemmeno i dettami della religione che segue, nonostante stia sempre in chiesa: dai suoi atteggiamenti infatti si evincerebbe una sorta di propensione comportamentale verso il satanismo piuttosto che verso il cristianesimo, ecco perché l’ho definita ipocrita. Probabilmente non cambierà mai.

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E il risultato del suo comportamento sono stati un marito che da buono è divenuto sempre più scontroso, di malumore e una figlia, mia sorella, con la tendenza ad alzare la voce per imporre i suoi voleri, tanto che sembra sempre sul piede di guerra, pronta a contestare tutto.

Si può pensare che i figli di due persone estremamente religiose acquisiscano le tendenze spirituali dei genitori. Per me da piccola fu proprio così. Mi sentivo bene appena uscita da Chiesa, purificata, alleggerita. Avevo svolto il dovere di un bravo cattolico e di una brava figlia che ascolta i voleri della madre e del padre i quali, come afferma la dottrina, vanno sempre onorati e rispettati. Per un periodo di tempo anche abbastanza lungo, fino all’adolescenza, sono stata considerata la figlia perfetta, la figlia modello. E mio padre non aveva nulla da ridire su di me: ottimi voti, ottima capacità di ubbidire alle loro imposizioni negli altri ambiti. Una normale figlia mansueta e addomesticata. Mi concedevano degli svaghi, mi hanno lasciato libera in un certo senso in certe cose, purché ubbidissi al resto. Da piccola credevo fossero i genitori migliori del mondo. Non mi hanno fatto mancare nulla a livello di cibo o vestiti, per quello che potevano permettersi. Mio padre è sempre stato generoso e mia madre ci teneva al vestiario sempre per una questione di apparenza, come se i vestiti potessero nascondere la grettezza interiore. Il bene provato era rivolto a entrambi i miei genitori, ma mio padre l’ho sempre considerato più affine a me, per il carattere decisamente più tranquillo di mia madre. E tentava di proteggermi. Mentre mia madre lanciava offese, come su tutti, anche su di me. Per la ragazzina qual ero sentir arrivare invettive sul mio aspetto, sui miei atteggiamenti che inevitabilmente infastidivano mia madre a un certo punto fu troppo, così mi chiusi gradualmente, barricandomi nella mia fortezza di insensibilità, come la definirebbe mamma. Non ero insensibile, ma cercavo di non provare sentimenti negativi a causa sua. In realtà le sue parole e atteggiamenti verso di me continuavano a farmi male nel profondo, mi ero anestetizzata solo superficialmente per attenuare i colpi, ma così avevo bloccato anche molti sentimenti positivi che avrei potuto provare. Credevo che se nemmeno mia madre riuscisse ad amarmi per come ero, nessun altro potesse farlo. Perché se la donna che ti ha messo al mondo ti disprezza, il problema sei tu, così almeno credevo.

Iniziò a degenerare quando si risvegliò il mio senso critico verso il mondo, colpendo come prima ondata gelida proprio la loro amata religione. Così iniziai a interessarmi di spiritualità e a fare cose che per i miei risultavano molto strane. Mia madre mi disse che a causa del mio rifiuto della Chiesa sarei finita all’inferno. Una madre molto amorevole quando voleva esserlo! Mi portarono a parlare con un prete, pure esorcista (forse speravano che vedesse in me il demonio? E comunque mio padre non è stato da meno nelle ultime recenti settimane: mi ha chiesto esplicitamente se potesse far venire un esorcista per me e io ho risposto che poteva anche venire, perché non avrebbe trovato niente): parlammo per un’ora e non risolse i miei dubbi. Col tempo l’acredine dei miei verso di me è molto cresciuta, proprio per il fatto che non mi adeguo più ai dettami del cattolicesimo e non torno “sulla retta via”, su quella che loro credono sia la via giusta verso la salvezza. Non so quanti discorsi ho iniziato con mio padre riguardo il cattolicesimo, discorsi peraltro iniziati da lui che mi spronava a dire la mia, per poi sentirmi rispondere “ne devi parlare con un prete” quando l’ho esortato a fare delle riflessioni sulle sue credenze e gli ho posto domande approfondite sulla sua religione. E nonostante questo, ancora insiste nel chiedermi ogni tanto se voglio andare in chiesa con loro, ancora si indispettisce per la mia risposta negativa. I miei sono convinti che le cose nella mia vita vadano male a causa del mio allontanamento dalla Chiesa, ma forse non considerano che potrebbero andarmi male a causa della loro vicinanza, del loro impormi le cose, del loro voler controllare nel dettaglio la mia vita. Lo hanno sempre fatto: quando scrivevo cose mie personali sui diari loro prontamente andavano a leggerle di nascosto, perché dovevano sapere cosa stesse succedendo nella mia vita, invece di chiedermelo. Col tempo mi sono sempre di più chiusa a loro, tanto da non riuscire a fare più dei veri discorsi in loro presenza, perché non ci riesco.

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Lo hanno dimostrato con gli anni, soprattutto mamma, di non avere tatto verso di me, di non riuscire a capirmi, di disprezzarmi quelle volte in cui facevo intravedere la reale me, perché non accettano chi la pensa diversamente da loro.

Mia madre mi ha dato varie volte dell’aliena, del mostro, della strana, dell’asociale, dell’inadeguata e incapace. Avevano programmato una figlia robot che per loro doveva solo pensare a studiare e ad andare in chiesa. Quando mi successe qualcosa di molto piacevole mio padre mi disse, ripetutamente: ”forse non è il momento giusto. Non devi distrarti ma devi rimanere focalizzata sullo studio”. Quando fui devastata dalla fine di quel periodo piacevole, le solite frasi: ”Pensa solo a studiare, perché è la priorità”. A volte ho pensato che loro credessero che io non avessi sentimenti, e che non potesse essermi concessa una pausa da tutte quelle imposizioni e pressioni psicologiche, che giocavano anche sui miei sensi di colpa, dato che i miei genitori facevano sacrifici per mantenermi. E mio padre li fa col lavoro, mamma non fa tutti quelli che decanta perché è casalinga e sta ore e ore stravaccata su un divano; tuttavia non ci ha mai fatto mancare le cose materiali. Ma per lei questo consiste essere in una buona madre: fin quando le cose materiali non mancano, tutto il resto non conta. Non conta che, nonostante i suoi cosiddetti sacrifici, io la consideri una mamma non pessima, ma mediocre, perché avrebbe potuto impegnarsi molto di più per non indebolirci dal punto di vista psicologico. Ha preso le sue frustrazioni, le sue insicurezze, le sue arrabbiature per la sua vita e le ha riversate su noi figlie. Per me, che sono la primogenita, ciò ha significato l’accumularsi di blocchi in determinati ambiti, di insicurezze, di paure, di appiattimento emotivo che ho dovuto combattere ma che mi è servito un tempo per contrastare la vigoria delle sue invettive. E così lei ha pensato che fossi insensibile, ma non ha mai considerato i motivi che mi hanno spinto ad esserlo. O non ha considerato i motivi dietro miei atteggiamenti che permanevano e che usavo, lo devo ammettere, per farle dispetto.

Forse queste esperienze hanno avuto un senso, dopotutto. Forse mi sono servite per capire meglio determinate cose. Ciò che ho compreso è che è una cosa perpetuata nel corso dei secoli e millenni: i genitori cercano di controllare e programmare i propri figli. Alcuni lo fanno perché sono stati a loro volta programmati così, altri lo fanno per colmare le lacune che hanno, sperando e anzi pretendendo che i figli raggiungano ciò che loro non sono riusciti ad avere, come se in questo modo anche loro si riscattassero. Taluni non capiranno mai che i figli non sono di loro proprietà e che possono solo indirizzarli e non obbligarli verso una determinata strada, certuni non comprenderanno mai che le loro scelte non sono sempre le più giuste, soprattutto verso un figlio. Alcuni genitori lasciano i figli troppo liberi fin da subito, e in parte a causa di ciò loro si guasteranno, altri impongono con sottigliezze psicologiche, in nome dei sacrifici che fanno, come se fossero legittimati ad avere potere su un’altra persona semplicemente per averli messi al mondo e per essersi presi cura di loro. Ma non è completamente colpa loro, è anche la società che è andata sempre in questa direzione, e loro si sono adeguati. Dopo le imposizioni subite dai loro genitori, si sentono in diritto di fare lo stesso sui figli, di esercitare quel potere. I miei lo fanno a livello inconscio, perché è un qualcosa abbastanza radicato in loro. Non lo fanno con cattiveria. E so che non mi obbligherebbero concretamente a fare nulla se esprimessi il volere di non fare una determinata cosa. Ci rimarrebbero male, ma a un certo punto sarebbero costretti ad accettare le mie decisioni.

Spesso però le pressioni psicologiche, soprattutto quelle che lavorano su di te da un’intera vita, sono molto subdole e sottili, tanto da farti credere di non poterti ribellare, di non poter cambiare strada, di non poter esercitare una volontà indipendente e in contrasto con l’autorità genitoriale.
Questo non è vero. La vita è la nostra, e dobbiamo imparare ad avere responsabilità di noi stessi. L’affidarsi agli altri, e in particolar modo ai genitori, può solo all’inizio sembrare liberatorio, in quanto si scaricherebbe il peso delle proprie scelte su qualcun altro, ma solo dopo ci si accorge, e anche a fatica in determinati casi, di essere stato imbrigliati da catene a cui si ha dato il consenso, e che stringono sempre di più. Quello che non si sa è che si possono spezzare, perché la volontà degli altri è come cartapesta a confronto della propria, che potrebbe essere d’acciaio.

E così vivi. Vivi davvero. Non lasciare che gli altri decidano per te, perché solo tu puoi sapere come realizzare le tue aspirazioni più grandi. E se sbaglierai almeno avrai seguito la tua testa, il tuo cuore. E se sbaglierai ti prenderai responsabilità delle tue azioni e avrai la forza, ce l’avrai, di provarci e riprovarci ancora, perché starai rincorrendo qualcosa che vuoi davvero, e la tua volontà può fare miracoli.

Non fare come Gertrude, la cui vita impostale dal padre l’ha portata al rendersi complice di un omicidio. Non uccidere la tua coscienza, la tua vitalità, per seguire le imposizioni di persone la cui individualità è state frammentata e abbattuta dalla società.

 

Phoebe e Artemisia H.

 

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1 Commento

  1. Una testimonianza molto forte, grazie per averla condivisa ❤ anch’io sono in una situazione simile alla tua, con mia mamma che urla (lei va a lavorare ma poi torna e si sente in diritto di scaricare tutto lo stress su di noi perché i clienti l’hanno fatto con lei) e si interessa moltissimo all’apparire. I miei genitori non sono cattolici, seguono una corrente yoga, per cui fin da piccola sono stata immersa in concetti come “aura”, “reincarnazione”… ma! In casa e fuori era proibito parlare di tutto cio, quando ero io a dire quello che vedevo o facevo venivo zittita e mi veniva detto che le abilità psichiche non vanno sviluppate e la meditazione va bene solo ogni tanto. L’ipocrisia, la finzione feriscono moltissimo i figli, soprattutto quando si rendono conto che il bel quadretto familiare non è poi così perfetto. Se ti può essere utile, c’è una psicologa molto brava chiamata Alice Miller che ha studiato per tantissimi anni i danni causati dall’educazione dei bambini e ha scritto dei libri davvero bellissimi a riguardo 🤗

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